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Minerva Pediatrica 2005 December;57(6):441-6
Copyright © 2005 EDIZIONI MINERVA MEDICA
lingua: Inglese
Parents helping parents: does this psychological mechanism work when the child is affected by a high risk disease?
Massimo L. M., Caprino D., Zarri D. A
Dagli anni '70 ad oggi la percentuale di sopravvivenza di bambini affetti da leucemia o tumore è aumentata considerevolmente fino ad assestarsi su valori superiori al 70%. Esistono, tuttavia, alcuni tipi o stadi con elevato rischio di morte, l'esempio più rappresentativo è quello del neuroblastoma in quarto stadio. La famiglia si trova impreparata ad affrontare la nuova situazione e, soprattutto, a trovare un buon adattamento e un adeguato sostegno. L'aiuto reciproco tra le famiglie è una tecnica psicologica incoraggiata e ampiamente usata. La condivisione di problemi ed esperienze simili può dare nuovi stimoli e aiutare a sviluppare delle strategie atte a ristabilire un corretto equilibrio e una qualità di vita accettabile dopo la comunicazione della diagnosi e l'inizio della terapia. Abbiamo osservato che, nel caso di malattie con alta probabilità di morte, e, soprattutto, quando le condizioni del bambino peggiorano, questa interazione può avere effetti negativi. Nel Reparto di Emato-Oncologia Pediatrica dell'Istituto Gaslini, fin dalla sua istituzione, è stata posta molta enfasi nella comunicazione e negli interscambi tra i bambini malati e tra i loro genitori considerandoli utili per il superamento di situazioni di disagio per le famiglie. Al tempo stesso, si è notato che, nei casi di leucemia o tumore a cattiva prognosi, o quando si manifesta un peggioramento delle condizioni cliniche o recidiva, le relazioni tra genitori hanno effetti negativi. Lo scambio di esperienze di genitori, il cui figlio con la stessa malattia e prognosi infausta è ancora in buone condizioni, può portare a depressione profonda e a un'anticipazione del lutto.
Negli ultimi 5 anni abbiamo creato un progetto denominato ³Benessere e qualità di vita'' assieme ai bambini affetti da leucemia o tumore e ai loro genitori, il cui percorso affronta problemi immaginari e cerca strategie utili per risolverli. Il principale obiettivo era ed è quello di coinvolgere direttamente i genitori e i fratelli nella cura globale del bambino malato. L'équipe consiste in 1 psicologo dedicato, in 5 maestre specializzate per l'animazione e la Scuola in Ospedale e in 9 laureati in Scienze della Forma-zione a contratto. Dal 1999 al 2002 sono stati seguiti 130 bambini con le loro famiglie, di cui 27 affetti da neuroblastoma disseminato e 45 sottoposti a trapianto di cellule staminali. In base a questa prima esperienza che mostrava segni di criticità, nel 2002 gli educatori sono stati preparati ad affrontare giornalmente compiti da caregiver, seguendo lo schema statunitense, sotto la supervisione dello psicologo. In 2 anni sono stati seguiti 87 bambini e familiari. Ogni caregiver ha avuto la responsabilità giornaliera di 5-6 gruppi familiari, in modo da evitare interferenze negative. I metodi di indagine sono stati: 1) osservare il comportamento di ciascun soggetto; 2) ascoltare commenti, motivazioni di comportamenti, ecc.; 3) valutare i disegni dei bambini; 4) proporre ai genitori un questionario di sole 20 domande e considerare le risposte. L'età dei caregiver va dai 25 ai 35 anni.
Dalla prima fase della nostra indagine abbiamo potuto raggruppare in 4 categorie i fattori di disturbo. 1) l'insorgenza repentina della malattia oncologica, l'insieme delle credenze popolari, la superstizione all'informazione, l'alto rischio di morte; 2) le caratteristiche dei soggetti coinvolti e la capacità di convivenza con la malattia (copying) e di controllo delle proprie emozioni; 3) i tipi di relazioni che si stabiliscono con i curanti e la differente enfasi sugli aspetti tecnici legati alla malattia; 4) il modo con cui viene offerta la necessità di condividere l'esperienza. Bisogna considerare, inoltre, la precedente storia di frustrazioni accumulate, soprattutto legate ai precedenti ricoveri. Questi fattori interagiscono tra di loro.
Dopo la formazione a caregiver dei 9 educatori e l'affidamento a ciascuno di loro di un piccolo numero di genitori e bambini, alcuni dei quali con prognosi infausta e necessità di protezione quotidiana, si è riusciti a ottenere migliori contenimento delle emozioni e copying e una maggiore serenità e convivenza nell'ambiente ospedaliero o esterno controllato dal personale ospedaliero addetto.
L'osservazione del comportamento e dei rapporti in diverse famiglie ha permesso di identificare alcune delle cause delle reazioni sfavorevoli: l'aumento dell'aspettativa di vita per un bambino con un tumore a cattiva prognosi o in recidiva; il differente intervallo di tempo tra la recidiva e il peggioramento delle condizioni cliniche; la percezione da parte del bambino che le cose stanno andando peggio, aggravata dalla mancanza di una comunicazione univoca da parte dei genitori e dei medici curanti; la convivenza, nella stessa struttura, di bambini con patologie diverse e in diverse condizioni cliniche soprattutto con prognosi peggiore; l'aumento patologico di difese psicologiche di fronte al cambiamento delle opzioni terapeutiche. In conclusione, riteniamo che sia i medici sia i vari professionisti che assistono bambini con malattia a prognosi grave debbano migliorare la capacità comunicativa, adottare strategie adeguate all'esigenza di ciascuna famiglia, aiutarla a convivere con la nuova realtà della malattia e del continuo contatto con l'ospedale. L'inserimento dei caregiver specificatamente educati a operare in favore di famiglie a rischio sia in ospedale sia a domicilio si è dimostrata di grande efficacia.
La terapia e la possibilità di guarigione non debbono mai essere proposte come ³una guerra da vincere'' ma come un'alleanza tra i bambini malati, i genitori, i medici e tutto il personale di assistenza per cercare di creare benessere e non soltanto distruggere la malattia.